Continuando la discesa verso valle si può notare la mole della chiesa di San Bartolomeo e del convento degli Agostiniani che si sviluppava al suo intorno, da poco restaurato.
L’origine della chiesa, sorta fuori dalle mura urbane, al di là dell’aspetto attuale risalente al tardo Settecento, è da ascrivere alla piena età medievale e il termine ante quem per la datazione può essere fissato nel 1338, anno in cui vi fu sepolto il conte di Geraci Francesco I Ventimiglia, come riportano gli scritti di Michele Da Piazza e Tommaso Fazello e come ha ribadito alla metà del Settecento Vito Amico: «nella parete meridionale osservasi un angustissimo sepolcro con iscrizione, in cui riposano le spoglie del Conte Francesco I».
Certamente la chiesa era in origine più piccola ed era orientata in maniera inversa: vi si accedeva infatti dal fornice ad archi acuti posto alla base della torre campanaria, oggi chiuso e utilizzato come sacrestia, secondo un modello riferibile all’architettura normanna (si pensi al campanile della Martorana di Palermo) ma diffuso anche in ambito madonita, come mostrano le chiese Madri di Gangi, Pollina e San Mauro Castelverde.
Un portico con arcate sostenute da pilastri smussati occupava il lato orientale della chiesa e girava sul fianco che guarda verso il paese; la sua funzione di riparo per gli uomini e il bestiame potrebbe mettersi in relazione con la fiera che si svolgeva annualmente nei giorni della festa di San Bartolomeo, i cui capitoli sono stati approvati dal marchese Simone Ventimiglia nell’anno 1551.
Come documentato i Raziocini nel 1769 la chiesa venne ampliata, abbattendo la parete di fondo e mutandone l’orientamento. Di tale intervento rimane traccia nelle cesure verticali nella trama muraria esterna, mentre l’interno venne coperto da una nuova decorazione plastica completata nel 1794 da Francesco Lo Cascio e dai figli Rocco e Clemente, gli stessi maestri di Motta d’Affermo che avevano lavorato nella chiesa Madre; l’analisi degli stucchi evidenzia due differenti repertori decorativi corrispondenti a fasi lavorative successive: il presbiterio segue stilemi tardo barocchi, mentre la navata presenta motivi semplificati di ascendenza neoclassica, come si vede nella volta a botte con riquadri geometrici.
Nella chiesa si conserva un notevolissimo trittico marmoreo che presenta all’interno di una cornice architettonica, definita da paraste con decorazione a candelabra, le sculture della Madonna con Bambino tra i Santi Bartolomeo e Giacomo (patrono e protettore di Geraci). Nell’ordine superiore è posta la Pietà, con l’Addolorata tra Maria di Cheofe e Maria di Magdala e ai lati l’Annunciazione, con le figure dell’arcangelo Gabriele e di Maria entro tondi; la composizione culmina con Dio Padre benedicente, mentre nella predella sono posti i bassorilievi della Natività (al centro) e del martirio di San Bartolomeo e di San Giacomo sotto le relative statue. Nelle altre formelle in corrispondenza delle paraste sono raffigurati i Santi Pietro e Paolo e in quelle di estremità i committenti in preghiera; per via degli emblemi araldici dei Ventimiglia e dei Moncada inseriti tra la decorazione delle paraste, essi vanno verosimilmente identificati con il marchese Giovanni II e la moglie, Elisabetta Moncada e La Grua. Il retablo è stato riferito alla bottega del maestro Antonello Gagini (figlio del citato Domenico), con l’apporto dei figli Giacomo, Fazio e Vincenzo e la sua datazione va circoscritta agli anni 1527-1542.
Le due colonnine binate in marmo bianco, attualmente collocate nel vestibolo d’ingresso della chiesa, pur appartenendo alla stessa matrice culturale del trittico appaiono anteriori; sono riunite da un’unica base e dai capitelli a foglie, uno dei quali contiene il rilievo di San Bartolomeo. È possibile supporre che le colonnine provengano da un chiostro o da un portico connesso alla chiesa, tanto che nel corso dei recenti lavori è stato rinvenuto un altro capitello figurato uguale a quello già noto.
Tra le altre opere va ancora ricordata la statua lignea di San Bartolomeo, custodita entro una nicchia della parete meridionale; la scultura coniuga l’impostazione solenne, quasi da filosofo greco, derivante dal modello usato da Antonello Gagini nella tribuna della cattedrale di Palermo, con la sensibilità barocca data dalla foggia dinamica e dal “metallico” drappeggio del manto. L’opera è stata attribuita alla bottega dei Li Volsi di Tusa, in particolare al capo bottega Giuseppe, ed è possibile datarla ai primi decenni del Seicento; allo stesso autore è riconducibile pure la vara processionale, che reca nello scannello scene della vita del Santo.
Nello stesso arco temporale la chiesa fu concessa agli Agostiniani della Congregazione di Centorbi (l’odierna Centùripe), infatti come riporta un atto del 1650, il loro convento «fu eretto l’anno 1627 dal Padre fra Gilemo da Regalbuto…»; a quella data la comunità religiosa contava quattro sacerdoti, un chierico e tre laici, che si dedicavano alla coltivazione della terra e vivevano d’elemosina. Il complesso conventuale conteneva «nove celle, refettorio, cucina, cannava, riposto, capitulo, stalla, stanza di paglia, dispense di vino, e luoghi communi e una chiesa di lunghezza undici canni e di larghezza canni quattro»; quest’ultime sono le misure dell’antico impianto chiesastico, prima delle riforme del tardo Settecento.
Testo di Giuseppe Antista